"Il Molise ha nel campo dell’artigianato nobili tradizioni, tra esse spicca quella di Isernia che accoglie i suoi visitatori con “la timida voce dei suoi innumerevoli fuselli” - Vincenzo Passarelli
Isernia può essere definita la città dei merletti, perché la sua principale attività artigianale è la preziossima lavorazione dei merletti al tombolo.
I merletti di Isernia sono rinomati in tutto il mondo per due ragioni: la remota origine e la fine fattura.
L’arte del merletto a tombolo risale ai primi del 400 e la tradizione vuole che siano state le suore spagnole del convento benedettino di S. Maria delle Monache a diffondere tra le loro educande questa arte. Il primo documento attestante la produzione di una trina a tombolo prodotta dalle religiose del convento risale al 1503. Questi ricami erano amati dalla regina Giovanna III d’Aragona, che aveva avuto come appannaggio matrimoniale la città di Isernia da re Ferrante. La regina, oltre ad essere grande ammiratrice, volle imparare personalmente, sotto la guida delle popolane isernine, a lavorare al tombolo.
I merletti di Isernia, inoltre, sono rinomati in tutto il mondo perché vengono lavorati con un filo di produzione locale di colore avorio e sottile che rende il lavoro assai elegante.
Ancora oggi passeggiando per le vie del centro storico è possibile ascoltare il caratteristico tintinnio dei fuselli maneggiati con maestria dalle donne isernine.
La processione del Venerdì Santo di Isernia ha come principale caratteristica quella della presenza degli Incappucciati, fedeli a capo coperto che trasportano le statue della Mater Dolorosa e del Cristo Morto, oltre che i busti degli Ecce Homo, le Croci Calvario e le Croci della Via Crucis.
Fin da epoche remote ad Isernia si sono svolte fiere importanti. Tra le più antiche c’è quella dei santi Nicandro e Marciano, di cui si trova menzione in una pergamena contenente alcuni privilegi concessi, il 19 ottobre 1254, alla città di Isernia da Ruggero conte di Celano e di Molise. Fra i privilegi figura l’esenzione dalle tasse per chi partecipava alla fiera. Essa si spense nei secoli successivi; venne quindi ripristinata con decreto reale del 27 luglio 1825, per poi estinguersi nuovamente.
Una fiera importante è quella che ha luogo il 26 e il 27 settembre, in occasione della festa dei Santi Cosma e Damiano, già conosciuta nel XV secolo ma divenuta internazionalmente nota sul declinare del Settecento a causa dei culti priapici che, secondo William Hamilton, trovavano luogo presso la chiesa isernina dedicata ai Santi Medici. La fiera dei santi Cosma e Damiano era inclusa nella classe “delle perdonanze”.
Un appuntamento mercantile che non si tiene più, ma che un tempo ha goduto di un discreto prestigio, è stata la fiera di sant’Ippolito (12 e 13 agosto).
Ha tuttora regolare svolgimento quella, di modesta identità, correlata alla festa di San Pietro Celestino (19 maggio).
La fiera più caratteristica da Isernia è certamente quella legata alla ricorrenza dei santi Pietro e Paolo, ossia la fiera “delle cipolle”, così detta perché l’allium cepa L. – assieme all’aglio (allium sativum L.) – ne è, da secoli, la protagonista.
Luigi Vittorio Bertarelli, nel 1926, scriveva: “Il 28 e 29 giugno di ogni anno (a Isernia) si tiene (nel piazzale Erennio Ponzio) un’importante e caratteristica fiera detta di San Pietro delle cipolle, perché vi si fa mercato di grandi quantità di bulbi di cipolle, che vengono presentati agli acquirenti in mucchi costruiti con grande pazienza. Vi accorrono ad offrire la loro merce tutti gli agricoltori di Isernia, di Venafro e di altri luoghi vicini. Nella zona isernina vengono adibiti a tale coltura circa 50 ettari e la produzione totale è di 3500-4000 quintali. La varietà più coltivata è chiamata rossa o di S. Pietro: sono cipolle a forma tonda, schiacciata, di colore rosso rame o rosso vinoso e di notevole grandezza (100 cipolle pesano in media 25 kg); vi è anche una sottovarietà, detta majorina, che è più precoce della precedente. Nel mercato di isernia compaiono anche la cipolla bianca, grossiss, e piatta, e l’aglio”.
La fiera isernina intitolata all’apostolo Pietro è di remota istituzione. E’ segnalata in uno dei settantacinque Capitoli della Bagliva promulgati nel 1487, ma presumibilmente essa preesisteva da secoli (difatti, tali Capitoli erano il riadattamento e la riformulazione di norme precedenti).
Il Capitolo quarantesimo, intitolato Delli giorni franchi della fiera, menziona “la festa e la fiera di S. Pietro Apostolo”.
Sappiamo, pertanto, che tale fiera, almeno dal XV secolo, aveva svolgimento annuale ad Isernia; ma non è certo se la medesima già allora fosse caratterizzata dalla presenza distintiva delle cipolle. Tali ortaggi, per, sono citati in nuovi Capitoli, non numerati, aggiunti successivamente (nel periodo che va dal 18 gennaio 1539 al 16 ottobre 1620.) Difatti, tra le regole dell’esitura codificate in detti ulteriori Capitoli si legge che era dovuto un pagamento di 3 grana “per ogni salma di cipolle” e che, per non danneggiare i produttori locali, era possibile proibire ai commercianti di fuori città la vendita di più generi alimentari, tra cui agli e cipolle.
Qual è il collegamento fra la cipolla e l’apostolo Pietro? Forse la risposta è in una legenda isernina, che conta varianti in latri luoghi.
Un giorno, la madre di san Pietro, donna avara e cattiva, mentre sciacquava in un ruscello delle cipolle appena colte, se ne fece sfuggire una di mano, che fu portata via dalla corrente. Poco più giù una povera vecchina riuscì ad afferrare l’ortaggio e chiese alla madre di san Pietro il permesso di mangiarlo, perché aveva fame. Quella, per la prima volta nella sua vita, fu colta da benevolenza e annuì.
Quando la mamma di san Pietro morì, fu mandata all’inferno a causa della sua avarizia. Ne rimase scontenta e irritata. Così ricorse al figlio. “Figliolo, mi hanno messo tra le fiamme; è un tormento. Non abbandonare la tua mammina, portami in paradiso”.
San Pietro le rispose che non si poteva: “Cosa direbbero le altre anime, mamma?”
La donna non faceva altro che chiamarlo per ripetergli di trasferirla in paradiso. Allora, per far cessare quel lamento, san Pietro decise ad invocare l’intervento di Gesù per tirarla via di lì.
“Dopo tutto – disse il santo al signore – una volta ha fatto la carità ad una vecchia affamata. Le ha regalato una cipolla”.A Gesù venne quasi da ridere, però, per far piacere a Pietro, acconsentì che la madre potesse uscire dall’inferno. “Se è stta così caritatevole – rispose ironicamente Gesù – falla appendere ad una resta di cipolle e portala con te in paradiso”.
Appesa la madre alla resta, il santo cominciò a farla salire verso il paradiso, ma le altre anime dannate sia avvinghiarono alla veste della donna per salvarsi anch’esse. Ella, allora, cattiva com’era, urlò loro di staccarsi e menò calcioni, perché voleva salvarsi da sola. E tanto urlò e si dimenò che la resta si spezzò, facendola precipitare nuovamente e definitivamente all’inferno.
(Fonte: LA FIERA DELLE CIPOLLE – Un’antica tradizione isernina – Progetto Allium Cepa; coordinatore Giulio Castiello, testi Mauro Gioielli)
Generalmente a settembre il centro storico di Isernia è sede di tante manifestazioni artistico/culturali tra cui proiezioni di pellicole cinematografiche all'aperto, organizzazione di spettacoli tipo "la corrida" e “La Canzone Utaliana d'Autore”, un concorso musicale ideato dall'assessorato alla cultura del Comune di Isernia che si svolge in piazza Celestino V e propone il rilancio della musica italiana. È un concorso per artisti emergenti non professionisti, autori di brani inediti. È un concorso recente che ha visto come direttore artistico Red Ronnie, ruolo che è attualmente rivestito da Dario Salvatori. L'evento musicale rientra nella serie di inziative appartenenti a Molise Live.
L'Eddie Lang Jazz Festival è manifestazione di musica jazz di grosso richiamo per gli appassionati del genere, e non solo; rappresenta il tributo della comunità di Monteroduni al suo più celebre “concittadino”. Di fatti, il paese in provincia di Isernia ha dato i natali ai genitori di Eddie Lang (al secolo Salvatore Massaro).
Eddie Lang nasce a Filadelfia, negli Stati Uniti d'America, nei primi anni del secolo, da una famiglia numerosa. Il padre, fabbricante di strumenti a corda, gli trasmette indirettamente la predilezione per la musica.
La figura di Salvatore Massaro – Eddie Lang simboleggia il riscatto per intere generazioni di emigrati che ambivano a condizioni di vita più agevoli in terre lontane.
Il Festival nasce nel 1990 grazie all’Associazione Eddie Lang Blue Music che sin dall’inizio ha avuto come obiettivo quello di operare in ambito locale e regionale contribuendo con una serie di iniziative utili a convogliare verso il Molise l’attenzione di operatori nazionali ed internazionali di turismo culturale.
L'Eddie Lang Jazz Festival si svolge, in agosto, nella splendida cornice del Castello Pignatelli di Monteroduni, che nel corso degli anni fino al XIX secolo ha segnato la storia del paese, e considerata da tutti gli artisti un luogo dall’acustica perfetta.
Immaginate una vallata incorniciata da monti dal color verde intenso, spazi sconfinati dove cavalli in libertà si muovono al profumo delle distese dei boschi, ritmi e colori da tipico paesaggio western: non siamo in Texas o nel Wyoming, bensì nel cuore del Molise, a Staffoli dove ogni anno in agosto si svolge la Corsalonga Western Show, il raduno equestre più importante del centro-sud che chiama a raccolta gli appassionati della cultura country. Un evento unico nel suo genere in Italia, che vede al centro di ogni attività il cavallo e tutta la cultura che, seppur di preminente derivazione d’oltreoceano, trova in questo scenario intrecci con la storia locale e le tradizioni equestri di casa nostra.
La Corsalonga di Staffoli rappresenta l’evidente espressione del desiderio di avvicinarsi all’ambiente, alla genuinità dei luoghi e delle genti, che trova nel cavallo il più autorevole e piacevole compagno. La location italiana più gradita per l’equiturismo e gli amanti del turismo en plen air , dove unire l’amore per il cavallo con quello per l’ambiente: passeggiate, trekking, cavalcate attraversando pascoli, tratturi, grandi aree verdi e fitti boschi.
Ad arricchire il paesaggio non mancano le aree espositive dove tra abbigliamento tipico per cowboy, attrezzi di selleria, e tutto il necessario per la cura dell’amico cavallo e la pratica equestre è possibile degustare piatti tipici: carne alla brace, salsiccia e fagioli, formaggi e tartufo.
Perno centrale dell’intera manifestazione sono le competizioni sportive che vedono scuderie e cavalieri professionisti provenienti da tutte le regioni italiane contendersi gli ambiti trofei in palio per le diverse specialità quali Barrel-Racing, Pole-Bending, Cattle-Penning, Roping, oltre l’acclamato torneo di Team Penning per la Staffoli Cup.
Un'occasione per turisti, escursionisti ma anche per gli stessi partecipanti alle gare di abbinare all’impegno sportivo momenti di relax in un contesto piacevole ed estremamente accogliente.
"E' strano quanto silenzio avvolge il Molise, eppure, in qualche modo, penso che il Molise si deve essere vendicato di quell'abbandono. Con le campane. Quell'eco è appunto del Molise che risuona in tutto il mondo." - Antonio Pascale
In Agnone da otto secoli si tramanda di padre in figlio una caratteristica tradizione, quella della fusione delle campane, che oggi viene portata avanti con passione e dedizione dalla famiglia Marinelli.
La Pontificia Fonderia Marinelli, infatti, è l’unica sopravvissuta tra le tante dinastie di campanari che dall’anno mille hanno dato vita a questa antica e nobile arte. Tante le campane che in questa fucina hanno preso vita arrivando in ogni angolo del mondo.
Una storia, quella della Fonderia Marinelli, lunga mille anni che ha visto alternarsi momenti belli a momenti di difficoltà. Tra i momenti da incorniciare il più significativo è senza dubbio quello del 1924 quando - dopo l’ultimazione della campana del Santuario di Pompei (fusa direttamente in loco) - Papa Pio XI concesse alla famiglia Marinelli il privilegio di fregiarsi dello Stemma Pontificio.
Da allora, tanti anni sono passati, ma in Fonderia il lavoro prosegue come nel Medioevo sia per le tecniche di lavorazione sia per la dedizione, la professionalità e la passione con le quali le campane sono realizzate.
Il Museo storico della Campana “Giovanni Paolo II” nasce nel 1999 ed è attiguo alla Pontificia Fonderia Marinelli. Si tratta di uno dei pochi musei privati nel mondo a raccogliere una vasta collezione di campane dall’anno mille ai giorni nostri.
Oltre alla vasta collezione di campane sono conservati anche antichi documenti relativi all’arte campanaria, nonché un excursus fotografico sulle principali campane realizzate e sugli incontri e relative ai ricordi che legano la Famiglia Marinelli ai Papi.
La sera del 24 dicembre ad Agnone, al battere del campanone di Sant’Antonio (ovvero alle 17.30 quando si odono i rintocchi del campanile più alto del paese), i gruppi delle contrade (Capammonde e Capabballe, Colle Sente, Guastra, Sant’Onofrio e San Quirico) costituiti da centinaia di portatori di tutte le età, vestiti con i costumi tradizionali, accendono le “ndocce” (torce) per incamminarsi lungo il corso principale del paese, che diviene così un gigantesco fiume di fuoco.
La ‘Ndocciata di Agnone anticamente si svolgeva a sera tarda fino al sopraggiungere della mezzanotte. Oggi, per esigenze turistiche, viene anticipata di alcune ore, ed ha inizio con l’arrivo della prima oscurità serale. Una volta le ‘ndocce erano accese soprattutto nell’agro della città e davanti agli usci delle case. Oggi esse sono destinate ad una spettacolare sfilata nel centro cittadino e una volta giunti in piazza si accende un gran falò, attorno al quale la popolazione si riunisce per dare l’addio a quanto di negativo c’è stato durante l’anno che sta per finire e che sarà simbolicamente bruciato nel fuoco.
Le 'ndocce sono grosse torce realizzate con legno di abete bianco e fasci di ginestre secche tenute insieme dallo spago. Le 'ndocce - alte fino a tre o quattro metri - hanno una caratteristica forma a raggiera, detta pure a ventaglio, e le torce che le compongono sono sempre di numero pari, variabile da due a venti. Le ‘ndocce vengono trasportate da uno o più portatori, in costume contadino, che introducono la testa tra i raggi e afferrano saldamente due fiaccole tenendo in equilibrio l’intera struttura. L’uso dell’abete bianco nella fabbricazione delle ‘ndocce trova giustificazione in vari elementi. Prima di tutto l’abete è pianta resinosa di facile combustione, pur essendo un legno molto pesante da trasportare; inoltre, è un legno di facile reperibilità nei boschi in provincia di Isernia, in particolare quello utilizzato per la ‘Ndocciata di Agnone è prelevato nel bosco di Montecastelbarone. La scelta dell’abete ha anche una valenza simbolica: è il più importante fitosimbolo della Natività; infatti, pur legato a rituali pagani, l’abete è divenuto per i cattolici il sacro albero natalizio.
I tronchi dell’abete, ripuliti della corteccia, vengono tagliati in sottili listelli di circa un metro e mezzo, legati tra loro a mazzo e sovrapposti fino a raggiungere l’altezza di tre/quattro metri. Questo lungo gruppo di masselli legnosi è arricchito in cima da steli secchi di ginestre. Le ‘ndocce così fatte, allorché ardono, scoppiettano caratterizzando anche sonoramente il rituale. Da come la ndoccia ardeva si traevano auspici: se soffiava la bora si prevedeva una buona annata al contrario se spirava il vento. Un fuoco scoppiettante e una fiamma consistente erano considerati ben auguranti perché in grado di scacciare le streghe.
Una delle usanze meglio ricordate dagli anziani era quella di fare la “cumbarojje” vale a dire di fare bella figura agli occhi delle ragazze; si gareggiava, infatti, nel realizzare la torcia più bella e compatta al fine di farla durare di più. La “cumbarsa”, cioè la comparsa, aveva anche un altro significato: a sfilata conclusa, si portava la ndoccia sotto la finestra della fanciulla sulla quale erano riposte le proprie speranze. Se lei si affacciava significava che aveva gradito il gesto e la torcia finiva di consumarsi davanti al suo portone, altrimenti un secchio di acqua spegneva al contempo la torcia e l’ardore del giovane.
(Nella foto: la 'Ndocciata dell'8 dicembre 1996 a Roma in Piazza San Pietro)
La Zampogna è uno strumento di origine antichissima, forse già conosciuto ai tempi dei Sanniti e dei Romani. Tuttavia, una delle questioni più dibattute è proprio quella dell’origine storica degli aerofoni a sacco, poiché i documenti a disposizione degli storici sono frammentati e non soddisfacenti. Tale limite rende impossibile l’esatta ricostruzione della nascita, dello sviluppo e della conservazione di questo strumento musicale.
Le prime notizie sull’uso certo d’uno strumento musicale a sacco risalgono al periodo della Roma Imperiale. Il biografo latino Svetonio scrive che Nerone sapeva suonare tre strumenti, tra cui la zampogna. A parte queste citazioni su Nerone, attualmente, non ci sono conoscenze incontrovertibili circa attestazioni precedenti, anche se la leggenda vuole che Giulio Cesare, nel 55 a.C., impegnato nella conquista della regione britannica sia riuscito a sconfiggere i nemici grazie al suono della zampogna. Infatti, il sannita Turno e altro centinaio di soldati romani fecero spaventare i cavalli del nemico con il suono stridulo della zampogna, i Britanni si misero in fuga e la battaglia fu vinta. Tuttavia, questa resta una leggenda, un racconto mitico, purtroppo senza nessuna concreta attendibilità storica.
L’artigianato della zampogna è stato troppo spesso considerato un artigianato povero, minore, perché c’era un pregiudizio di fondo: la zampogna era vista come uno strumento musicale legato a mestieri e stili di vita poveri; in realtà , questo strumento, e l’artigianato a esso connesso, è sì legato alla vita contadina e pastorale, ma comunque è parte integrante di una cultura e una tradizione millenarie e ricche di storia.
Oggi, per fortuna, la Zampogna ha recuperato la sua dignità, al punto da trovare spazio anche nei concerti più prestigiosi e non solo quelli di musica etnica.
La produzione artigianale delle zampogne, prima diffusa su tutto il territorio nazionale e oggi quasi scomparsa altrove, attraversa a Scapoli un buon periodo di rilancio produttivo e di rivitalizzazione culturale.
Gli artigiani scapolesi custodiscono gelosamente nelle loro botteghe i segreti della costruzione della zampogna che si rifà a tecniche antichissime.
Come tanti anni or sono lo strumento è costituito da tre canne sonore, di legno, e dalla sacca, realizzata con pelle di pecora. Gli elementi in legno sono costruiti con essenza di olivo, di acero, di sorbo o anche di prugno, di ciliegio e di albicocco, anche se il legno migliore resta quello di ebano, però difficile da reperire e più costoso. Le cannule prendono il nome di “bordone”, quella centrale che emette la nota fissa, di “ritta” e di “manca”, le altre che consentono gli accordi musicali. La sacca di pelle di pecora permette di immagazzinare l’aria che spinta nella cannula centrale offre alla zampogna la melodia tipica dello stridente suono di sottofondo.
La Zampogna nel Molise – di Mauro Gioielli
Nell’attuale tradizione musicale del Molise, la zampogna è uno strumento legato principalmente alla cultura di tre paesi: Scapoli, Castelnuovo a Volturno e San Polo Matese, ma anche altre località sono (e sono state) interessate all’uso degli aerofoni a sacco.
Castelnuovo e San polo sono comunità nelle quali rimane attivo un buon numero di zampognari; Scapoli, invece, svolge un ruolo diverso, perché, oltre ad essere luogo con cospicua presenza di suonatori, è il centro di produzione degli strumenti.
A Scapoli si costruiscono due tipi di zampogne: quella con chiave e quella zoppa.
La zampogna a chiave
La zampogna molisana con chiave, come tutte quelle dell’Italia meridionale, ha sempre il doppio chanter, il mono impianto e l’alimentazione a bocca; ma mostra anche proprie peculiarità. I legni più comuni usati per la costruzione delle zampogne molisane sono l’ulivo e il ciliegio. Vengono, però, lavorate anche altre piante ritenute adatte. Molti strumenti sono fabbricati con l’uso misto di legni: (ciliegio per le campane, ulivo per i fusi dei chanter e per i bordoni).
Per gli otri, è invalsa la consuetudine di utilizzare le camere d’aria di automobili ricoperte di finto vello. Però, occasionalmente e su richiesta, si utilizzano pelli d’animale (capra o pecora).
La molisana con chiave è zampogna d’accompagnamento, suonata in coppia con la ciaramella, che effettua le parti soliste dei brani musicali.
La ciaramella molisana (biffera) , così come per la zampogna, viene costruita in vari modelli, adatti a suonare col corrispondente modello di zampogna.
La zampogna zoppa
E’ detta zoppa (cioppa in dialetto) la zampogna senza chiave costruita nel Lazio e in Molise. Nel Molise, l’uso della zampogna zoppa è quasi del tutto estinto.
La scupina
Nel Molise, fino a pochi decenni fa, è stato in uso un particolare tipo di zampogna caratterizzato dall’avere i due chanter e l’unico bordone costruiti con canna palustre (arundo). La scupina molisana – il cui uso è ormai estinto – era destinata al “sostegno” della voce in canti eseguiti in occasioni festive calendariali (capodanno, riti di primavera) e durante le serenate.
La Zampogna è, dunque, l’espressione e la testimonianza di una civiltà contadina e pastorale millenaria, ma dal 1975 è anche momento di divertimento, di aggregazione, di confronto e scambio culturale con l’appuntamento estivo del Festival Internazionale della Zampogna di Scapoli. Il Festival - anno dopo anno - sta riscuotendo sempre più successo attirando su Scapoli musicisti, cultori della zampogna da tutta Europa e semplici turisti intenzionati a calarsi nella realtà culturale locale che offre la possibilità di cimentarsi con la musica gustando piatti tipici. Anche grazie a questa manifestazione la zampogna si è finalmente scrollata l’etichetta di strumento musicale povero e natalizio.
Altre iniziative a salvaguardia e promozione della tradizione artigianale e musicale della zampogna sono il Museo Nazionale della Zampogna, inaugurato dal comune di Scapoli nel 2002, e il Circolo della Zampogna istituito a fine 1991.
Il Museo oltre ad esporre strumenti italiani e stranieri è dotato di una sala insonorizzata per l’accordatura delle zampogne che, come noto, deve avvenire in assenza di eco. All’interno del Museo anche la riproduzione di un’antica bottega artigiana.
L’obiettivo principale del Circolo era, ed è, quello di creare, nel piccolo centro molisano, un polo di documentazione, tutela e valorizzazione dell’antico strumento ad otre. Il Circolo è riuscito nell’ulteriore intento di risvegliare l’interesse locale e nazionale nei confronti di questo strumento e di fare di Scapoli un punto di attrazione turistica in grado di richiamare nell’area un numero maggiore di visitatori, in sintonia con la nuova realtà venutasi a creare con l’inserimento nel comprensorio delle Mainarde nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise dove accanto alla musica il visitatore potrà degustare i piatti tipici della tradizione gastronomica scapolese, come i “Ravioli alla scapolese” che hanno ottenuto il deposito della ricetta presso la Camera di Commercio di Isernia.
(Fonte: "La zampogna nel Molise" di Mauro Gioielli dal catalogo della Mostra permanente di cornamuse italiane e straniere di Scapoli, Sigmastudio 2001)
“I coltellinai di Frosolone, capaci di perfezionare continuamente le produzioni, fanno da sempre dell’artigianato delle lame una vera e propria arte. Ed oggi come nei trascorsi secoli di tradizione, l’inventiva, la creatività, la non serialità sono gli elementi di forza che fanno primeggiare la qualità e l’estetica degli arnesi da taglio di Frosolone” - Francesco Jovine
Frosolone quale centro di eccellenza per la produzione dei ferri taglienti è noto già al tempo del Regno di Napoli. Il centro si sviluppa, quasi a diventare un “distretto industriale”, quando Carlo di Borbone, Re delle Due Sicilie, intese dare un assetto industriale al suo regno favorendo la riorganizzazione di fonderie e armamenti.
La fama del paese andò crescendo, quando di lì a poco, nel 1828, i fratelli Fazioli ricevettero la medaglia d’argento per i loro prodotti all’Esposizione artigiana di Napoli.
Tuttavia l’arte della forgiatura a Frosolone ha natali ben più remoti. In effetti, non c’è una data certa circa l’origine della lavorazione dei metalli a Frosolone. Tuttavia, Michele Colozza autore del volume edito nel 1933 “Frosolone dall’origine all’eversione dal feudalesimo” fa risalire questa antica tradizione al VI secolo, quando i Longobardi, popolo notoriamente militarizzato, scese nell’Italia Meridionale.
Successivamente la vocazione agricola e, soprattutto, pastorizia del paese ha favorito la lavorazione di metalli per la realizzazione di attrezzi agricoli e di utensili.
La specializzazione dell’artigianato locale nella lavorazione dei ferri taglienti ha radici più certe nell’epoca medioevale. In particolare, esistono testimonianze scritte circa la migrazione di artigiani veneziani verso il Sud Italia, i quali diffusero l’arte della forgiatura dell’acciaio nel Molise.
Attualmente la lavorazione dei coltelli ha assunto carattere industriale pur rimanendo una forte connotazione familiare nella gestione delle attività.
Dal 1996, durante il mese di agosto, a Frosolone si svolge la Mostra Mercato dei Coltelli e delle Forbici lungo i vicoli del centro storico, negli stessi locali dove un tempo erano ubicate le botteghe artigiane. Circa una cinquantina gli artigiani che annualmente espongono i propri prodotti alla mostra, in particolare va sottolineata la presenza di quelli provenienti da Maniaco (Friuli), Premana (Lombardia) Scarperia (Toscana) e Pattada (Sardegna), con i quali il comune di Frosolone ha redatto un protocollo d’intesa chiamato “Gemellaggio delle lame”.
Sempre nello stesso periodo nel centro storico si svolge anche la festa della Forgiatura, cioè la tecnica manuale attraverso la quale si dà forma agli oggetti e alle parti componenti che dovranno essere assemblate tra di loro.
Di recente, è stato riaperto il Museo dei Ferri Taglienti nei locali di Via Selva grazie al finanziamento del Ministero dell'Università e della Ricerca Universitaria.
Nel Museo sono conservati centinaia di oggetti di valore storico recuperati tra gli appassionati e tra gli eredi dei migliori lavoratori delle forbici e dei coltelli di Frosolone del secolo scorso.
La Pezzata, vale a dire la sagra della pecora bollita con erbe aromatiche e dell’agnello alla brace, è l’emblema della tradizione pastorale di Capracotta e dell’alto Molise; essa si tiene annualmente la prima domenica di agosto nella splendida cornice del pianoro di Prato Gentile.
L'origine di questa pietanza risale ai giorni in cui la transumanza tra le montagne dell'Alto Molise ed il tavoliere delle Puglie era pratica comune.
Accadeva talvolta che nel guadare un fiume o nell'attraversare un punto più impervio, qualche animale si azzoppasse e non fosse più in grado di proseguire il viaggio. Diventava irrimediabilmente allora la cena dei pastori che potevano cucinarlo, dopo averlo "depezzato", con le poche cose disponibili ad una carovana in viaggio.
La Pezzata da piatto semplice e “di emergenza”, a partire dagli anni '60 - quando l'Amministrazione Comunale di Capracotta pensò di organizzare una sagra che potesse far conoscere a tutto il Molise ed anche oltre, un piatto tipico capracottese la cui ricetta rispecchiava le radici e le origini di quel popolo di pastori – è divenuta una prelibatezza per buongustai.
Ingrediente fondamentale è ovviamente la carne di pecora che acquista il suo gusto particolare grazie ai pascoli d'altura quantitativamente meno ricchi dei corrispondenti di pianura, ma qualitativamente molto più nutrienti. La carne viene cotta in grandi paioli riempiti d'acqua e la prima operazione da eseguire è la "schiumatura", ovvero l'eliminazione del grasso in eccesso venuto a galla a seguito della cottura, successivamente si aggiunge sale e qualche patata (anche con la buccia) che continua ad assorbire il grasso rilasciato durante la lunga cottura (almeno 4 ore) e qualche pomodoro per dare colore al brodo senza renderlo, però, troppo rosso.
Questa è la ricetta base. Variazioni sul tema contemplano l'aggiunta di altri odori come sedano, carote, cipolle e un pizzico di peperoncino.
L'ultima domenica di Carnevale, a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta al Volturno (Isernia), si ripropone un’antichissima rappresentazione.
Non è possibile stabilire l’esatta origine del rituale (che ha chiarissime componenti magico-religiose e si realizza sotto forma di pantomima), ma il fatto che esso rappresenti anche una scena di caccia, lascia intendere che sia davvero antichissima. Gli uomini preistorici, infatti, prima ancora di diventare pastori o contadini sono stati cacciatori. E che il mascheramento attraverso il quale il rituale si realizza sia proprio quello d’un uomo-cervo non fa che accrescere la considerazione che il carnevale di Castelnuovo sia una reminiscenza delle più remote “scene simulate” rappresentate dall’uomo. Ci troviamo, quindi, di fronte ad una pantomima che descrive aspetti tipici della vita primordiale; anche se la sua lettura mitico-culturale evidenzia alcuni caratteri che si sono aggiunti in epoca più recente.
La rappresentazione comincia con il tintinnio di più campanacci, suonati con una cadenza ossessiva, proveniente dalla montagna. Si tratta delle “Janare”, streghe dai lunghi capelli, le quali annunciano il terribile rito che si sta per rinnovare. Quindi è il turno degli zampognari. Finché un grido risuona nell'aria: "Gl' Cierv'! Gl' Cierv!'". Giunge così la Bestia, il Cervo, un attore coperto di pelli e con grandi corna ramificate sul capo, il volto, le mani dipinti di nero e il petto ornato di campanacci. Ostenta forza e cattiveria. Irrompe nella piazza distruggendo tutto ciò che incontra nel suo cammino e aggredendo la gente finché non entra in scena una Cerva con un pellame più chiaro e movenze più aggraziate con cui comincia il corteggiamento. L’intero paese è atterrito.
Giunge, allora, un personaggio con un cappello a punta, Martino, che immobilizza gli animali. È un personaggio misterioso, vestito di bianco, una sorta di mago venuto dalla montagna. Rappresenta il Bene. Cerca di arginare la furia delle Bestie, armato soltanto del suo bastone, quindi riesce a legare gli animali con una corda. Ma i Cervi rifiutano con disprezzo la polenta offerta loro come pacificazione, riuscendo persino a liberarsi delle corde e ricominciando a terrorizzare la gente. Soltanto l'intervento di un Cacciatore, una sorta di giustiziere, riesce a fermare le distruzioni violente riprese dagli animali. Le Bestie si accasciano in un improvviso silenzio. La gente è attonita di fronte alla realtà della morte. Il Cacciatore si avvicina ai due corpi, si china e soffia nelle loro orecchie; come per incanto le Bestie rivivono in una ritrovata dimensione naturale, liberate dal Male. Viene quindi acceso un grande falò purificatore.
Dai vicoli, attratte dal fuoco, riappaiono le “Janare”, le streghe. Danzano perché, ricordano, la magia pervade ogni angolo della terra, ogni momento della nostra vita, se soltanto abbiamo la capacità di cercarla.
(Fonte: L’Uomo-Cervo di Mauro Gioielli)
La lavorazione della pietra a Pescopennataro è un’arte antica; le origini dello scalpellino pescolano risalgono presumibilmente al periodo osco-sannitico, ne è testimonianza la fortezza sannitica (ormai distrutta) dotata di mura megalitiche a difesa della parte più vulnerabile.
Altre testimonianze dell’arte della lavorazione della pietra sono visibili nella vicina Agnone: chiavi di volta, portali, chiese e palazzi. L’artistico portale della Chiesa di sant’Emidio di Agnone pare sia stato commissionato dal feudatario Borrello nel 1295 proprio agli scalpellini pescolani.
Le notizie sugli scalpellini di Pescopennataro si fanno più numerose a partire dal 1700; nel paese fu istituita una vera e propria scuola artistica guidata da numerosi e valenti maestri. La presenza della scuola indusse molti agricoltori e allevatori a convertirsi all’arte della lavorazione della pietra. Tale specializzazione portò innanzitutto all’acquisizione di un notevole prestigio per i mastri scalpellini di Pescopennataro - chiamati a realizzare balaustre, acquasantiere, fontane, cappelle gentilizie, cippi funerari, portali, stucchi e decorazioni di case e chiese in tutto il mondo - ma anche benefici economici per le famiglie.
Attualmente a mantenere viva una tradizione tramandata da tre generazioni è Mario Lalli, preciso e raffinata scalpellino autore di diverse opere quali caminetti e mortai. Lalli è anche autore della “farfalla” di Piacere Molise, donata alla Camera di Commercio di Isernia ed esposta al Museo Civico della Pietra nei Secoli.
La sezione del Museo dedicata alla Preistoria, è la naturale premessa per poter comprendere l’origine dell’attività degli scalpellini che nell’antichità ha dato fama e identità ai pescolani.
L’intera sezione proviene dalla collezione di Pietro Patriarca (originario di Agnone) e della moglie Fortuna Ciavolino che ne hanno curato sia l’allestimento che la sezione didattica. Inoltre, hanno fatto dono al Museo di una curiosità natalizia: un originale presepe assemblato con pietre naturali, levigate esclusivamente dall’acqua e dal tempo che suggeriscono i vari personaggi della tradizione.
L’imponente collezione Preistorica, consegnata alla terra di provenienza dei ritrovamenti, è frutto di una ricerca trentennale e di uno studio costante ed appassionato sul territorio altomolisano. Essa comprende oltre 1600 manufatti in selce e calcare, molti dei quali di straordinaria fattura a testimonianza di un’industria litica raffinatissima che potremmo definire altamente specializzata. Tali reperti accertano la presenza ininterrotta attorno a quei luoghi di una comunità stabile e progredita che scheggiava la pietra già oltre mezzo milione di anni fa.
Il materiale recuperato accerta la compresenza degli strumenti arcaici del Paleolitico inferiore insieme a quelli raffinatissimi del periodo Neolitico. La raccolta è, inoltre, impreziosita da originali monili e piccoli idoli assolutamente inediti che da soli giustificano una visita al Museo. Studiosi di fama internazionale, per la peculiarità dell’industria litica presente a Rio Verde, per l’abbondanza di siti e reperti, sono concordi nell’individuare nella zona dell’Alto Molise un’area di primario interesse per i futuri studi sulla Preistoria ancora lacunosi per la storia regionale.
In segno di gratitudine ai coniugi Patriarca, il Museo è stato dedicato ad una persona a loro cara e prematuramente scomparsa, la nipotina Chiara Marinelli.
La sezione “Mario Di Tullio” del Museo Civico della Pietra nei secoli “Chiara Marinelli” vuole ricordare i numerosi scalpellini pescolani che, realizzando opere in pietra lavorata, si sono resi famosi non solo nell’hinterland, ma anche in Italia e nei vari Paesi stranieri che li hanno ospitati come emigranti.
(Fonte “Pescopennataro, paese degli alberi e dei maestri della pietra” pubblicazione a cura del Comune di Pescopennataro)
L’arte di modellare la creta per produrre oggetti in ceramica ha origini antichissime.
In passato tale forma di artigianato era diffusa su tutto il territorio regionale (in particolare a Guardiaregia, Trivento e Campobasso) per la facilità con cui si poteva reperire la materia prima, una pasta terrosa di buona qualità diffusa in varie zone della regione.
Il primo noto ceramista molisano fu un tale maestro Sabino che operò nel Medioevo; non esistono testimonianze storiche significative sul suo conto, ma l’origine del nome conferma l’appartenenza a questa terra.
Successivamente, nel XIV secolo furono i monaci benedettini presenti nell’Alto Molise a continuare e perfezionare l’arte di plasmare i materiali terrosi; di lì la produzione di terracotta prese piede in vari centri dell’isernino.
Un’esperienza importante è quella del duca di Pescolanciano, Pasquale Maria D’Alessandro, che sul finire del XVIII secolo nel centro isernino avviò un laboratorio per la produzione di porcellane e maioliche. Le produzioni raggiunsero un buon livello di qualità, sia dal punto di vista artistico (a Pescolanciano giunsero i migliori pittori e stampatori dell’epoca), sia dal punto di vista della qualità delle ceramiche contraddistinte da uno smalto molto ricco di stagno.
La tradizione vuole che l'incredibile successo delle manifatture scatenò la gelosia del direttore della Fabbrica Reale di Capodimonte che diede ordine di distruggerla.
La Giornata del Pastore è promossa dalla Federazione Provinciale Coldiretti di Isernia e si celebra la terza domenica di luglio sul pianoro di Roccamandolfi.
Nasce come rassegna bovina intorno agli anni 80 con il fine di migliorare, attraverso la fecondazione artificiale, la genetica della locale "Bruna Alpina" con seme selezionato di "Brown Sviss".
Da diversi anni é diventata "Giornata del Pastore", vale a dire rassegna del patrimonio ovi-caprino di Roccamandolfi e dei paesi vicini, grazie ai risultati, ormai acquisiti, nel miglioramento genetico dei bovini.
Il flusso dei partecipanti é notevole, richiamati anche dalla maestosa bellezza dei luoghi, dalla tranquillità e dalla serenità ispirate dallo stupendo scenario che il Pianoro di Campitello di Roccamandolfi offre.
Oltre, quindi, alla valutazione del patrimonio ovi-caprino, vengono allestiti numerosi stands per la promozione dei prodotti lattiero-caseari, dell’artigianato, della zootecnica e dell'agricoltura, dei prodotti dell'alveare, del sottobosco, delle attrezzature e macchine agricole.
Uno stand gastronomico offre "Agnello alla Brigante” e "Pezzata Matesina", formaggi, salumi locali e buon vino.
In genere, la giornata si conclude con balli e canti nella valle che il giorno dopo tornerà alla solennità dei suoi silenzi.
Festival Internazionale Intitolato a Mario Lanza (il suo nome originale era Alfredo Arnaldo) che nasce il 31 gennaio del 1921 a Filadelfia da una famiglia di umili emigrati italiani, il padre Antonio di Filignano e la mamma Maria Lanza di Tocco da Casauria in provincia di Pescara in Abruzzo; si dedicò, dopo i normali studi scolastici, alle più svariate attività, mostrando soprattutto una particolare attitudine per le discipline sportive, ma fu intorno ai diciannove anni che iniziò a dedicarsi al canto e prese a seguire le lezioni di Irene Williams, la quale, entusiasta delle sue non comuni doti vocali, volle farlo sentire al celebre direttore d’orchestra Serge Koussevitzky. Mario Lanza cantò per lui «Vesti la giubba», dai Pagliacci, e Koussevitzky, ne restò sbalordito. Da lì inizio un’incredibile ascesa canora e cinematografica.
Dal 1996 ogni anno, in agosto, a Filignano – paese natale di Mario Lanza – va di scena il “Festival Internazionale di Canto Operamusical – Omaggio a Mario Lanza” in ricordo del grande tenore.
Attraverso questo Festival Internazionale, Filignano si fa conoscere al palcoscenico mondiale esaltando la musica lirica e lanciando giovani cantanti.
L’Evento può essere annoverato tra gli appuntamenti di spessore artistico che maggiormente ha contribuito negli anni ad imporre Filignano (e la Provincia di Isernia) all’attenzione del grande pubblico.
Il direttore artistico, il tenore Gian Luca Terranova, è riuscito a fondere nel Festival Opera e Musical, due generi che Mario Lanza interpretava con grande trasporto. Operamusical è anche il titolo del concorso che omaggia il grande tenore all’interno del Festival.
Un tempo al termine della stagione della mietitura si era soliti ringraziare le divinità (e, successivamente, Madonne e Santi) per il raccolto.
Anche in Molise questi rituali erano piuttosto diffusi, con il tempo, in molti paesi, si sono estinti, ma resistono nella tradizione popolare di due paesi: Jelsi e Pescolanciano.
La festa di S. Anna a Pescolanciano
Secondo una diffusa tradizione orale, la festa di Pescolanciano in onore di Sant’Anna sarebbe nata, come quella di Jelsi, in seguito al terremoto del 26 luglio del 1805 per ringraziare la Madonna della protezione offerta durante il sisma.
Probabilmente l’origine di questa festa, ma anche delle altre che un tempo si celebravano in Molise, sono assai più remote essendo legate al culto della dea Kerri (Cerere) come evidenziato dalla Tavola Osca di Agnone (attualmente custodita al British Museum di Londra), nella quale delle 17 divinità menzionate ben 10 sono connesse alla funzione cerealicola.
E, in effetti, a Pescolanciano sono i manocchi (rispetto a Jelsi non vi è l’uso delle traglie) – spesso adornati di fiori - ad essere condotti in processione, quindi, è il Grano il vero oggetto del culto e non la Santa.
La sfilata dei covoni a Pescolanciano si svolge nel tardo pomeriggio del 25 luglio dopo che i manuocchi sono stati radunati sull’aia. I fedeli attendono l’arrivo della statua della Madonna per disporsi in processione.
Aprono la processione i manucchiari (i portatori dei covoni) seguiti dalla statua di Sant’Anna, a sua volta seguita dal corteo di fedeli che proprio alla Santa canta un inno.
Un tempo i covoni venivano trasportati con gli animali, utilizzando dei carretti, ma soprattutto dalle donne li portavano in testa grazie all’uso della spara (cercine); in seguito, si è fatto uso dei contenitori (tine e cesti), anche perché non è facile rimanere in equilibrio con un covone in testa. Attualmente si ricorre anche al trasporto con i trattori.
La processione si conclude portando i manocchi in chiesa (passando dall’ingresso principale) davanti all’altare dove i prete procederà alla benedizione. Dopo la benedizione i manucchiari escono dalla porta laterale e si celebra la Santa Messa.
Il Carnevale di Bagnoli del Trigno rientra tra le rappresentazione carnevalesche che fanno della personificazione del ciclo annuale il fulcro della rappresentazione scenica.
Nel Molise fino a qualche decennio fa erano abbastanza diffusi questi rituali carnevaleschi in cui venivano rappresentati i mesi dell’anno attraverso l’allestimento di carri trainati da animali (Campobasso, Riccia, Cercepiccola, Gualdialfiera, Isernia e Bagnoli del Trigno). I carri e i personaggi erano espressione della ciclicità della natura vista dal contadino. Il rito affonda, dunque, le sue radici nella tradizione della civiltà contadina, ma in realtà ha origini antichissime.
La personificazione delle stagioni ha ispirato l’uomo sin dai tempi degli Egizi, dei Greci e dei Romani, ma è con la diffusione delle ballate e delle canzoni in italiano volgare che questa tradizione prende il largo. Tale repertorio medioevale riesce a sopravvivere e ad arrivare sino ai nostri giorni inserendosi nel folklore delle regioni dove assume le sembianze di drammatizzazione carnevalesca.
Il Carnevale dei 12 mesi di Bagnoli del Trigno, pur inserendosi nei riti propiziatori che tendono a creare gli auspici per il buon raccolto della terra, ha note specifiche legate al canto popolare bagnolese “Sanghe de Serinella” nel quale si narra di un certo “Francische lu giulliere”.
Francische lu giulliere è il protagonista della festa, una sorta di Pulcinella locale, che sembra coincidere con il Carnevale vero e proprio, e che chiama a raccolta i Mesi, le 12 tappe dell’anno, visti dalla prospettiva contadina.
Nella tradizione il suo costume era bianco, in mano portava un bastone e in testa un alto cappello oppure una corona.
La manifestazione si conclude con la distruzione del fantoccio di Carnevale, gesto simbolico per lasciarsi alle spalle le disavventure dell’anno appena trascorso. Quando il fantoccio è completamente bruciato inizia il nuovo anno agricolo che porta con sé la primavera.
Con la denominazione di Volo dell’Angelo viene identificato un rituale che si realizza in forma di sacra rappresentazione e che vede come “attori” dei fanciulli, i quali, opportunamente istruiti al compito ed appositamente vestiti per le esigenze sceniche, interpretano un ruolo che li rende protagonisti d’una tra le più suggestive cerimonie cultuali oggi presenti nella religiosità popolare italiana.
Alla fine dell’Ottocento, Angelo De Gubernatis, ospitando nella Rivista delle tradizioni popolari italiane, da lui diretta, un articolo di Gaetano Amalfi sul volo dell’angelo, ebbe a sottolineare che si trattava d’una costumanza piuttosto diffusa “nel Mezzogiorno, e specialmente nel Molise”.
Nel prendere atto di tale asserzione, bisogna convenire che non è possibile oggi accertare quale fosse, a quel tempo, la reale presenza del rito nel territorio molisano. Sta di fatto che essa, attualmente, è del tutto marginale e non paragonabile alla tradizione di altre regioni, come, ad esempio, la Campania.
Certo è che in passato più di un paese molisano potesse vantare la pratica di simili rituali. A Campolieto, ad esempio, la calata è stata in uso fino a circa sessant’anni fa, e si metteva in scena in occasione della festa di San Michele Arcangelo (29 settembre).
Anche ad Isernia c’era l’usanza d’una simile sacra rappresentazione. Il rito si svolgeva in Piazza Sanfelice, dove “…intorno al 1925 si organizzava il “volo degli Angeli” legando da una fune tra il palazzo Veneziane e il palazzo Magnante e lanciando nel vuoto due Angeli”
Si hanno notizie del Volo anche per Civitanova del Sannio; qui la rappresentazione era legata alla festa di San felice martire (29-30 agosto).
Per Campolieto, Isernia, Civitanova e Montorio si tratta di rituali non più praticati da decenni. C’è, però, un paese molisano che può vantare un rilevante survival in tal senso: Vastogirardi, in provincia d’Isernia, il cui Volo dell’Angelo è stato sommariamente descritto, nel 1977, da Teodoro Busico.
Altro elemento distintivo è la lunga fase di preparazione delle statue della Mater Dolorosa e del Cristo Morto che precede la processione vera e propria.
Dapprima le anziane adornano di fiori l’effigie in gesso del Gesù posto supino sul letto di morte, pieno di laceranti ferite e, successivamente, preparano la statua della Mater Dolorosa con vestito di colore nero, ricamato con filo dorato, con testa coronata e cuore ferito da sette spade che rappresentano i sette peccati capitali.
Tutte le Confraternite della città (Santa Maria del Suffragio, Sant’Antonio, San Domenico, San Pietro Celestino) - distinguibili per il colore delle mozzette - partecipano alla processione svolgendo un ruolo nel corteo, ma è la Confraternita del Santissimo Sacramento ad organizzare puntualmente tutta la sacra rappresentazione, alla quale partecipano anche il clero, con un proprio ruolo, e le autorità civili e militari.
La Processione attraversa quasi tutta la città, con le strade che vengono addobbate con luci e fiaccole che gli stessi isernini preparano per l’occasione su molti balconi.
Le statue e i busti degli Ecce Homo, le Croci Calvario e le Croci della Via Crucis sono trasportati da fedeli penitenti: gli Incappucciati, così chiamati per il cappuccio, coronato di spine, che copre il loro volto e che completa la tunica bianca che li contraddistingue. Lo scopo del cappuccio è quello di tenere segreta l’identità di chi compie l’atto penitenziale, e dare quindi maggior valore all’atto stesso.
La processione del Venerdì Santo è caratterizzata da un’ampia partecipazione collettività che, unita ai canti e alle preghiere, rende l’atmosfera intensa e commovente tale da non riscontrarsi in alcun altro rito religioso della città.